Il populismo patrimoniale

Marco Tarchi | 14 juin 2020

Ideologie. Lo studioso francese Dominique Reynié ha introdotto un nuovo concetto nell’analisi deimovimenti di protesta contro la classe dirigente. A suo avviso essisono alimentati soprattutto daltimore dei cittadini per gli effetti della globalizzazione e delle migrazioni dimassa sul loromodo di vita abituale. Gli abbiamo chiesto di approfondire il tema con il suo collega Marco Tarchi.

Nel libro Les nouveaux populismes (Pluriel,2013) il politologo francese Dominique Reynié ha introdotto un concetto innovativo nello studio delle forze anti-establishment attive in Occidente. Ha parlato cioè di «populismo patrimoniale» per definire una proposta politica che trae profitto da un duplice timore molto diffuso in questa fase storica tra i cittadini: quello di veder minacciato non solo il loro benessere materiale, «ma anche il loro patrimonio culturale, il loro modo di vita». Per approfondire la questione, che rimanda ai nodi dell’immigrazione e della società multiculturale, « la Lettura » ha promosso un confronto tra Reynié, che ha da poco pubblicato lo studio 2022, le risque populiste en France (Fondapol), e il politologo Marco Tarchi, che ha molto contribuito a farne conoscere le idee in Italia.

Conversazione tra MARCO TARCHI e DOMINIQUE REYNIÉ

MARCO TARCHI — Alcuni studiosi ritengono che il populismo sia la causa della crisi della democrazia, come
un cancro che la rode dall’interno. A loro avviso, dietro i volti dei tribuni odierni, i capi dei partiti populisti, si cela il risorgere di fenomeni antichi. Altri dicono che il populismo costituisce senza dubbio un pericolo, ma è piuttosto il prodotto di una crisi endogena della democrazia. Quindi esso potrebbe anche mostrare che ci sono problemi reali da risolvere, onde evitare che la protesta populista si trasformi in una sorta di febbre universale e diventi quindi ingestibile. Come collocarsi fra queste due posizioni?

DOMINIQUE REYNIÉ — Ciò che viene chiamato populismo si trova al cuore dell’idea democratica. Esso si richiama alla sovranità popolare, perciò mi pare difficile immaginare una democrazia di massa senza una certa dose di populismo. Si tratta di una tensione tra la massa e le élite, provocata dall’interazione fra i governanti, che sono una minoranza, e l’insieme dei governati, che rivendica, secondo quanto prescrive il modello democratico, un potere di decisione. La democrazia moderna, che si è affermata dopo la fine del XIX secolo, da un po’ di tempo ha smesso di funzionare. Con un’economia di mercato regolata da uno Stato sociale, si riusciva a integrare le masse, coinvolgendole in un processo decisionale tanto più efficace in quanto lo Stato era in grado di redistribuire le risorse. Il punto chiave è che quel modello era nazionale, e al suo interno si potevano attivare strumenti come le ferie pagate o la previdenza sociale, che riflettevano le richieste espresse dalla volontà popolare. Oggi assistiamo a una riconfigurazione planetaria della politica, altrimenti detta globalizzazione, la quale fa sì che uno Stato nazionale possa registrare le preferenze dei governati senza essere in grado di soddisfarle. I cambiamenti demografici e sociali inducono gli Stati ad aggiustamenti, a mio avviso inevitabili, alla ricerca di un equilibrio di bilancio attraverso strumenti come i tagli alla previdenza e alla sanità. Si tratta però di un processo che dà una sensazione di regressione. E la maggior parte dei governati lo rifiuta.

MARCO TARCHI—Con quali conseguenze?

DOMINIQUE REYNIÉ—Il demos cerca di riprendersi il potere di determinare una politica che corrisponda alle
sue aspettative, ma non lo ottiene mai. E la crisi dello Stato sociale si trasforma in crisi della democrazia. A mio avviso, è questa crisi a provocare il populismo, e non il populismo a minacciare le istituzioni rappresentative. I populisti non sono contro la democrazia, anzi promettono che funzionerà meglio grazie a loro. Dicono, rivolgendosi alle masse: «Quello che voi chiedete è molto chiaro; gli altri partiti non lo capiscono o non vogliono farlo; noi invece abbiamo la volontà di realizzare le vostre preferenze».

MARCO TARCHI — Ci si può chiedere se questa volontà di riappropriarsi delle conquiste del welfare non sconvolga lo spartiacque tra sinistra e destra. Lei sostiene che il populismo di sinistra ha il problema di non poter superare taluni limiti, come far propria la critica dell’immigrazione e accettare il nazionalismo, che lei vede, trovandomi d’accordo, come una componente fondamentale del populismo. Esso considera solo il proprio popolo, mentre non s’interessa granché alla sorte delle altre nazioni. Però vediamo tentativi di controbilanciare da sinistra l’ascesa dei populismi definiti «di destra».

DOMINIQUE REYNIÉ—Non direi che scompaiano le sensibilità di sinistra e di destra. Semmai, nello spazio democratico occidentale, la sinistra viene letteralmente estromessa dalla storia. Forse più in là esisterà una nuova
sinistra, ma nel ciclo attuale, dal momento che aveva costruito le sue fondamenta sullo Stato sociale, la crisi della sinistra è profonda, anche perché l’internazionalismo è diventato un problema. Il mondo globalizzato è promettente per alcuni e ansiogeno per molti: agli europei pone le questioni dell’immigrazione e dell’avvento delle società multiculturali. È vero che tutte le nazioni hanno origini etnoculturali piuttosto varie, ma è esistito un processo di omogeneizzazione: per questo gli europei sono stati colti di sorpresa. È uno choc. Il multiculturalismo fa sì che nelle democrazie europee si affermi una tendenza al rifiuto dello Stato assistenziale. Il cittadino comune non accetta più la redistribuzione, perché l’altro a cui concederla non è più come lui, è avvertito come estraneo. Si tratta di un architrave del sistema che crolla. Lo Stato assistenziale, l’internazionalismo, l’universalismo sono istanze in crisi da ripensare interamente, ma la sinistra non lo fa. E il popolo mostra di avere un problema con gli stranieri, con una cultura altra. Non è il popolo fraterno della lotta internazionalista. Questo popolo nazionale, si potrebbe dire xenofobo (termine che, preso nel significato letterale che rimanda alla paura dello straniero, mi sembra si possa applicargli), è fatto di persone tra le quali è diffuso il timore di essere spossessate del proprio modo di vivere. Questa paura la sinistra non riesce a prenderla in considerazione.

MARCO TARCHI — Una recente inchiesta mostrava che molti elettori italiani votano per la Lega di Matteo Salvini, pur dicendo di non riconoscersi in un programma né in un’etichetta di destra. A volte si dicevano addirittura antifascisti e orgogliosi del passato operaio e comunista dei loro padri. Dicevano che avrebbero votato Lega perché non ne potevano più delle ondate migratorie, che portavano modi di vita completamente diversi dai loro. Inoltre si consideravano traditi dalla sinistra ufficiale, che non si occupa più delle situazioni di difficoltà delle persone appartenenti a famiglie operaie e viene ormai vista come legata ai quartieri alti. Mi è parso che quelle persone vedessero nel populismo un modo per prendere le distanze rispetto alla sinistra, senza professarsi di destra.

DOMINIQUE REYNIÉ—Qualcosa del genere vale anche in Francia: penso che in profondità il partito di Marine
Le Pen continui a essere di destra, ma dal punto di vista dell’elettore deluso può apparire popolare, socialmente aperto e, cosa molto importante, una forza grazie alla quale si può sbloccare la situazione. La sua è un’offerta che io chiamo «la rottura al posto dell’alternanza». Votando per un partito populista antisistema, ci si propone di rompere, spezzare qualcosa, punire chi non vuol sentire ciò che desidera la maggior parte dei governati. È assai significativo l’ostinato rifiuto dei governanti europei di considerare la questione dell’immigrazione. Una parte molto considerevole dell’elettorato ripete: «Non siamo più a casa nostra, non si riesce più a conservare il nostro modo di vivere, le donne vengono molestate, ci sono dispute religiose che prima non esistevano, ci sono problemi di delinquenza». Ma questo discorso non passa, con effetti elettorali devastanti per la sinistra, che ormai ha abbandonato persino la lotta per la laicità contro le influenze religiose dell’integralismo musulmano, forse perché vede l’islam come la religione dei dominati.

MARCO TARCHI—Non è che la sinistra abbia deciso di affidare agli intellettuali il compito di reagire agli attuali
sentimenti popolari? Come lei ha detto, è stata soprattutto la classe operaia a farsi prendere dalla paura dello straniero, ma contro questa tendenza mi pare che sia in atto da tempo una controffensiva, soprattutto sul tema dell’immigrazione, nel cinema, nel teatro, nella letteratura, nei media, che sono ancora in buona parte la voce della sinistra. Ho la sensazione che i partiti progressisti abbiano quasi rinunciato a battersi sul terreno politico tradizionale e cerchino di vedere se l’opera degli ambienti intellettuali, attraverso i mezzi di comunicazione, possa essere sufficiente a rilanciare le loro idee universaliste.

DOMINIQUE REYNIÉ—Può darsi, ma ciò sta rendendo ancor più rapido il crollo della sinistra, perché è l’esatta rappresentazione del progressismo dei quartieri alti. Il discorso di accoglienza verso gli immigrati finisce inevitabilmente per apparire come un rimprovero rivolto al pubblico. Un rimprovero che è davvero difficile da
sopportare per le classi popolari, perché le loro esperienze di vita sono diverse da quel che vedono sullo
schermo. Si sentono dire: «Pensate di avere un problema di sicurezza? Ma no, non avete un vero problema di
sicurezza; la vostra è, principalmente, una sensazione di insicurezza…».

MARCO TARCHI—Lei ha il grande merito di aver creato l’espressione «populismo patrimoniale». A suo parere
la dimensione immateriale, culturale, svolge un ruolo più importante della dimensione economica e materiale nella progressione elettorale dei nuovi partiti populisti. E ancora: all’interno dell’elettorato dei partiti populisti di destra, le lamentele contro l’immigrazione sono più importanti sul piano culturale che sul piano economico. Cito dal suo libro del 2013: «Lo stile di vita che va difeso non è tanto una cultura nazionale che si vorrebbe vivere e trasmettere, quanto piuttosto un modo di vita che si vorrebbe far perdurare per goderne quanto più a lungo possibile. Non si tratta tanto di un io collettivo, mitico e glorioso, quanto piuttosto di un io privato, domestico e ordinario». Io trovo che quel che diceva allora oggi si sia trasformato in realtà. E tuttavia il concetto di populismo patrimoniale è stato poco ripreso, salvo che in Italia.

DOMINIQUE REYNIÉ—Sì. Tuttavia i politologi americani Pippa Norris e Ronald Inglehart, nello studiare l’elezione di Donald Trump, hanno rilevato lo stesso problema. Il loro lavoro dimostra che l’identità è il tema che conta nell’ascesa del populismo, non la disoccupazione o il livello di retribuzione. La determinante più forte è legata al patrimonio immateriale. In Francia molti sono a disagio con questo concetto. C’è un meccanismo di preclusione, di chiusura, che agisce non appena si chiamano in causa elementi esplicativi o variabili che vengono ad urtare una sensibilità politica o culturale. Si chiudono gli occhi dinanzi a ciò che fa entrare in campo la questione dell’immigrazione come una determinante forte, perché ciò porterebbe alla conclusione che, per lottare contro il populismo, occorre controllare le frontiere e sviluppare una politica più attiva per integrare gli stranieri o ricondurli nei Paesi d’origine. È molto duro per la sinistra riconoscere, attraverso il riferimento all’idea del patrimonio immateriale, che la spiegazione fondata sui fattori economici non funziona, non ci permette di capire quel che avviene. La correlazione che si cerca di stabilire—anch’io ci ho provato—fra il livello di disoccupazione e il voto populista non trova riscontro nei fatti.

MARCO TARCHI—Qui arriviamo al ruolo delle emozioni. Oggi alcuni studiosi insistono sul fatto che la molla
dei populismi non è un insieme di condizioni reali, ma la percezione che se ne ha. Ho letto testi in cui si sostiene che la nostra epoca, stando agli indicatori statistici, è la più sicura della storia. Ma le persone hanno una
sensazione d’insicurezza, quindi è un problema di emozioni: i populisti non fanno che creare essi stessi emozioni come la paura e l’odio. Io trovo che questa impostazione non possa affatto convincere la gente che sisbaglia un po’ su tutto ciò che concerne la propria vita. Mi chiedo inoltre se non esistano due modi di trattare il tema delle emozioni. Perché, ad esempio, è evidente che le emozioni sono state a lungo eccitate, come si dice, in direzioni diverse da quelle predilette dai partiti populisti. Si esortava all’indignazione verso il grande capitale che spingeva le persone alla disperazione, o verso i padroni che affamavano gli operai. A mio avviso, le emozioni hanno sempre fatto parte della politica, ne sono un ingrediente fondamentale, ma in una prospettiva immateriale, come lei diceva. Invece, si cerca di dimostrare che non sono altro che invenzioni e che in fondo, se le persone ragionassero, nessuno voterebbe per i populisti. Che ne pensa?

DOMINIQUE REYNIÉ—Sono assolutamente d’accordo. Lo ripeto alla mia maniera: quando si sente dire che il populismo ha una relazione con l’emozione, lo posso accettare. Quando si dice che ha l’esclusiva di questa relazione,
no. Questo enunciato proviene infatti da forze politiche che hanno perso la battaglia dell’emozione, ma comunque l’hanno combattuta. Se si guarda alla produzione culturale della sinistra, ci si accorge che la sua mobilitazione di emozioni (peraltro spesso vana quanto a risultati concreti), che ieri serviva a raccogliere consensi, oggi non funziona più. Si sta dunque verificando uno spostamento, una modifica dei rapporti di forza nel campo delle emozioni.

MARCO TARCHI—Dei tentativi di reazione però esistono, come gli Indignados in Spagna.

DOMINIQUE REYNIÉ—Certo. È un dato che colpisce: Los Indignados, Nuit debout o Occupy Wall Street sono eccellenti esempi, perché ogni volta siamo colpiti dallo iato che c’è tra la realtà del fenomeno, spesso di piccolissime
dimensioni o di brevissima durata, e l’enorme eco che trova sulla stampa. È un po’ come nel caso di chi si precipita ad annunciare la fine del populismo quando si verifica un rovescio elettorale di uno dei partiti che ne sono espressione. Non appena avviene un fatto di questo tipo, viene annunciata l’inversione del ciclo. Tutto ciò dipende dalla stessa politicizzazione dell’interpretazione e dell’osservazione. Un altro aspetto consiste nel sostenere che, in definitiva, esistono un partito della ragione e un partito dell’emozione; e in questo caso l’emozione viene giudicata negativamente. Il partito dell’emozione è il partito populista e il partito della ragione è l’insieme delle forze di governo. Ma questi discorsi, lungi dal ridurre l’influenza del populismo, la accrescono, perché vengono intesi dagli elettori come supponenti e altezzosi: «Voi ci spiegate che avete ragione e che noi non capiamo perché non siamo capaci di ragionare».

MARCO TARCHI—C’è chi parla a tal proposito di disprezzo del popolo.

DOMINIQUE REYNIÉ — Sì, c’è qualcosa di simile. A ciò aggiungo la crisi in cui la democrazia è entrata dopo
la caduta del comunismo. Mi ricordo la gioia che ho provato quando il comunismo è crollato, perché era una tirannia che scompariva, ma poi è subentrata una domanda: «Fra quali opzioni possiamo scegliere ora?». Dal 1989 ad oggi non abbiamo risposto all’interrogativo e ciò fa parte della crisi che alimenta il populismo. Non solo i governi non traducono più in atti concreti le preferenze espresse dai popoli nel pieno rispetto delle procedure democratiche: si rispettano le regole del gioco, si gioca, ma ogni volta si perde, quindi comunque questo problema c’è. Ma, in più, c’è l’idea che manchi una scelta vera. E così il populismo è diventato l’unica alternativa. Non vedo nient’altro. Ci spiegano che questa alternativa è irricevibile. Lo si può capire, ma viene da dirsi: non è per questo che si parla di «pensiero unico»? Come si può rinunciare all’idea di un’altra possibilità?

MARCO TARCHI—È il problema posto dagli ex elettori di sinistra di cui si parlava prima.

DOMINIQUE REYNIÉ — Aggiungo però, tornando al populismo patrimoniale, che esso contraddice la visione,
fondata sulla dimensione materiale, per cui il voto di protesta è un’espressione di classi precarizzate, in sintesi operai o contadini. Invece il populismo patrimoniale, riferito agli stili di vita, sale di livello, si estende, tocca le classi medie e persino alcune élite. In Europa è un fenomeno nuovo, ma osservo alcuni settori di élite che si spostano in quella direzione. Ciò mi impressiona molto, perché questo passaggio non esisteva 25 o 30 anni fa. Esistevano élite populiste, ma restavano circoscritte nel loro universo. Ora ci sono giornalisti, intellettuali, scrittori— talvolta di successo—che riprendono questo discorso. È segno che, in fondo, il populismo diventa quel che prometteva di essere senza mai riuscirci, cioè una forza interclassista. Esso ha sovente una forte base operaia (dipende dai Paesi), ma a sostenerlo ci sono anche famiglie di classe media, ad esempio in Francia perché i genitori non vogliono che i figli vadano nelle scuole pubbliche ed è complicato e costoso mandarli in quelle private. È un fenomeno di massa: hanno l’impressione di sacrificare i loro figli, di inviarli in un ambiente terribile. Sono fenomeni che vanno al di là della classe operaia, molto ampiamente, e quindi siamo al passaggio da una base sociale relativamente ristretta a un’altra potenzialmente molto estesa, forse anche maggioritaria.

MARCO TARCHI—Lei parlava dei populisti come di coloro che fanno promesse e non riescono mai a mantenerle.
Anche in questo caso, ci sono sempre stati due atteggiamenti alternativi. Ci sono quelli che dicono che, per dimostrare agli elettori che le ricette dei populisti non funzionano, occorre accettare di lasciarli partecipare a coalizioni governative. Questo creerà loro problemi interni, mostrando che dovranno rinunciare a mettere in atto la maggior parte delle proposte formulate quando erano all’opposizione. Di contro ci sono altri che dicono il contrario, cioè che bisogna assolutamente evitare di farli partecipare al governo, e che si può invece riprendere una piccola parte dei loro programmi ed integrarla nelle politiche dei partiti di governo. Qual è, secondo lei, il bilancio delle esperienze populiste all’interno dei governi in Europa? Qual è l’atteggiamento, la tattica dei partiti della maggioranza che ha ottenuto i peggiori o migliori risultati?

DOMINIQUE REYNIÉ — Sono due modelli effettivamente diversi. Il primo consiste nel far partecipare al governo
i populisti per obbligarli ad assumersi delle responsabilità, e in fondo proiettarli insieme agli altri in un mondo screditato. È un’idea bizzarra, perché in definitiva punta a eliminare il secondo ramo dell’alternativa. Oggi c’è la scelta fra i governi mainstream e la rottura populista. Non ci fosse più tale possibilità, resterebbe quindi la scelta tra votare per un partito di governo moderato oppure astenersi.

MARCO TARCHI—Sarebbe un ulteriore elemento di debolezza per la democrazia.

DOMINIQUE REYNIÉ — Sarebbe disastroso, perché vorrebbe dire che non si risponde alle questioni poste dal voto populista, ma si cerca di estinguere quel voto. La mia raccomandazione è evitare questo comportamento tattico e tenere piuttosto un comportamentostrategico, ma nel contempo democratico. Vedremo che effetti produrrà, ma è ciò che fa il governo di sinistra della Danimarca, con provvedimenti forti su immigrazione, integrazione, espulsione, lotta al terrorismo. Lo fa e dice agli elettori danesi: «Prendiamo in considerazione quello che dite, vi proponiamo risposte che si collocano nel contesto del mondo democratico». Quella che ho proposto è forse la risposta migliore. Si può dire che è più strategica, perché sottrarrebbe ai partiti populisti il monopolio, e il privilegio, di parlare di temi che solo essi trattano, ma che preoccupano molto i cittadini. Ma soprattutto è una risposta democratica. Si fornisce la prova che il sistema rappresentativo funziona e che è possibile, grazie al voto, soddisfare le aspettative di una larga parte dell’opinione pubblica su argomenti che ai suoi occhi sono essenziali.

 

 

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